Quando nasciamo veniamo a far parte di un libro già aperto, con una storia, una trama, dei personaggi; è la nostra storia famigliare; possiamo influenzarne le pagine che seguono ma non le precedenti.
Per questo, in un percorso terapeutico, è impensabile dare un senso alla sofferenza senza considerare le vicende personali e famigliari. Più che mai questo è vero per i disturbi psicosomatici, cioè quando il corpo “parla” al posto delle parole. Il sintomo corporeo rappresenta un disagio emotivo, che – se da una parte si mostra ed esprime sofferenza – dall’altro camuffa e nasconde perché il disagio che c’è dietro, la sofferenza vera, è ritenuta pericolosa da affrontare. Nella pratica clinica della psicoterapia è stato possibile individuare nel tempo alcune caratteristiche ricorrenti nella famiglia del paziente psicosomatico che possono aiutare a capire molti aspetti della persona. Innanzitutto il portatore di sintomo spesso non è l’unico in famiglia a “somatizzare”, le tensioni emotive nel tempo tendono ad essere vissute ed espresse per mezzo del corpo anche da altri membri famigliari.
Questo intanto ci induce a guardare nel funzionamento famigliare e non solo personale. Osserviamo in queste famiglie una tendenza generale ad evitare di parlare, c’è il timore che esprimersi possa rappresentare una minaccia alla relazione come se dichiarare e trattare direttamente il problema mettesse a rischio l’unità famigliare. Sembra si possa star male solo con la malattia fisica, altro sarebbe meglio evitarlo. Molti sono i casi in cui conosciamo una crisi di coppia mai trattata oppure quando un figlio vive una difficoltà a prendere una posizione rispetto ai propri genitori, che vada nella direzione della sua libertà ed autonomia, temendo in modo sotterraneo la rottura del rapporto.
La malattia diventa espressione di sofferenza e allo stesso tempo causa forza maggiore per restare vicini, sollecita cure, protezione, rassicura su quella paura di perdita. E la perdita è uno spauracchio grande per queste famiglie perché a ben guardare in altri tempi e in altri posti, di perdite reali ce ne sono state, come lutti, malattie, separazioni, conflitti e tagli. Ferite mai cicatrizzate sul tema della perdita. La paura di perdersi rende le persone taciturne e vicinissime, così vicine da non avere un sano confine, ci si sente spesso invasi, intrusi.
Occorre pertanto restituire parole al sintomo leggendolo come un sostituto della vera sofferenza per proteggere il mito dell’unità. Un’unità fragile, precaria perché basata su un’apparente solidarietà, priva di vera intimità se non ci si può conoscere e confidare in profondità. Il sintomo psicosomatico è solo in apparenza privo di senso, le persone si sentono confuse, impotenti, stanno male ma nessuno le legittima con una vera diagnosi. Ed anche intorno a loro presto iniziano a minimizzare con la solita frase “è solo stress, riposati”. Uscire dalla censura emotiva è il primo passo per liberare il corpo da questo gravoso compito che gli è stato affidato, oltreché l’inizio di una vicinanza relazionale autentica.