Nel 1967 Paul Watzlawick elabora i cinque assiomi della comunicazione. Il primo in particolare non lascia scampo ai dubbi: “non si può non comunicare”. Gli assunti di Watzlawick, ancora oggi validissimi, cambiano in qualche modo l’approccio al ruolo della comunicazione, che se dal punto di vista tecnico è un’interazione tra un emittente e un ricevente, allargando il campo su di essa si vede che è molto di più: la comunicazione è un sistema dinamico e complesso, è presenza sociale, è alla base della nostra quotidianità e di tutte le nostre relazioni.
L’assunto di Watzlawick ci aiuta a capire che è impossibile non mettersi in connessione con l’altro da noi quindi, l’unica via d’uscita per una convivenza sana ed efficace, è imparare a comunicare bene. Per farlo bisogna sfatare alcuni miti, ad esempio l’idea che le parole che pronunciamo siano alla base del processo comunicativo; niente di più sbagliato: la comunicazione verbale, nell’enunciato emotivo, prende solo il 7 % circa delle nostre interazioni. Lo avreste mai immaginato?
Ma allora su quale dato Watzlawick ha postulato il suo primo assioma? Sul più grande motore della comunicazione ovvero il linguaggio non verbale, detto anche linguaggio del corpo. Persino restare in silenzio vuol dire essere ugualmente in relazione. Espressioni facciali (il nostro viso è formato da ben 36 muscoli), posizione delle braccia e delle gambe, occupazione dello spazio sono tutti segnali che inviamo agli altri e dicono molto di noi e dei nostri stati d’animo; se ci pensiamo bene, è il nostro primo veicolo di comunicazione perché da bambini abbiamo iniziato a parlare, stentatamente, all’incirca dopo un anno di vita quindi, nei primi mesi, ci siamo dovuti arrangiare con smorfie, sorrisi, pianti e movimenti degli arti per venire ascoltati e riconosciuti nei nostri bisogni.
In massima parte esso non è intenzionale, e dice molto bene se quel che verbalizziamo corrisponde al vero oppure no. Come? In combinazione con la parola e la sua intonazione (linguaggio paraverbale) che invece sono totalmente intenzionali, il linguaggio del corpo forma la congruenza del nostro enunciato. Immaginiamoci una persona seduta comodamente in una poltrona all’interno di un locale, il corpo ben appoggiato allo schienale in una postura totalmente “aperta”, le braccia e le mani dietro la testa, le gambe rilassate e accavallate in modo grossolano, il viso disteso in un sorriso: cosa starà pensando? Cosa vi comunica? Suppongo rilassatezza, felicità, compiutezza, sicurezza. E se mentre lo vedete così vi stesse raccontando del periodo molto doloroso che sta attraversando? Ci credereste? Forse no. In questo piccolo esempio si capisce quanto sia importante la congruenza tra comunicazione verbale e comunicazione non verbale e quanto la prima sia più utile per comprendere cosa prova realmente la persona di fronte a noi.
La parola, quindi, acquista valore e forza solo se è accompagnata dalla coerenza. La coerenza è il prodotto della capacità di esprimere se stessi senza infingimenti, senza la paura di mostrare emozioni, nel pieno controllo della situazione. Lo stile comunicativo più adatto per questo è l’assertività. Essere assertivi significa prima di tutto riconoscersi valore e riconoscerlo al nostro interlocutore, pur nella naturale divergenza di vedute. Questo è già un passo fondamentale per instaurare una interazione sociale costruttiva. Se credo di avere delle potenzialità le esprimerò in modo che possano essere comprese e riconosciute e se penso che anche il mio interlocutore abbia un valore, a prescindere che io sia o meno d’accordo con lui, la mia modalità di confronto sarà sicura e rispettosa, soprattutto avrà una alta probabilità di farmi avere un risultato positivo, di vedere ascoltate le mie istanze.
Cosa succede se, nonostante tutto, le nostre argomentazioni non funzionano? Molti di noi, spesso, si sentono sopraffatti dalla rabbia quando non riescono a farsi comprendere (ad avere ragione) e perdono la lucidità di pensiero innescando comportamenti aggressivi nei toni e nelle intenzioni: ecco, è questo il momento preciso in cui il controllo della situazione passa di mano alla persona con cui stiamo interagendo e noi diventiamo incapaci di dirigere il discorso dove vorremmo, alziamo i toni e ci facciamo prendere da un attacco di collera. Il risultato è una grande frustrazione per non essere riusciti nell’intento di far valere la nostra idea e per aver perso il controllo. La persona assertiva, al contrario, riesce a dominare la rabbia e anche nel rivelarsi sicuro e autorevole, non travalica mai il confine, labile, in cui l’aggressività prende il sopravvento, evitando di farsi agire dal controllo altrui. Questo non vuol dire che la persona assertiva non si arrabbia mai tutt’altro, pur arrabbiandosi come tutti sa come non cadere in preda all’ira. Per essere tale l’assertivo ha un’alta autostima che gli consente di superare il cattivo risultato che gli si è presentato di fronte, riesce a fare tesoro di quanto accaduto per essere più efficace in un’altra occasione.
Si può diventare assertivi? Certo che sì; come per tutte le questioni che riguardano la nostra evoluzione, la personalità e il nostro ruolo sociale, è possibile fare un cambiamento ma è necessario partire dalla “centratura” di noi stessi, cominciare a pensare a sé come l’ente fondamentale e diventare il centro del nostro mondo. Iniziare da sé significa guardarsi dentro, accettarci per quello che siamo e dare valore alla nostra persona: da qui si può migliorare ciò che riteniamo dover cambiare di noi. Detto così pare tutto facile e non lo è, ma di certo è possibile. Prendere in mano le redini della propria vita è un’esigenza comune, che troppo spesso abbandoniamo per rifugiarci in una comfort zone nella quale adagiarsi (e compiere sempre gli stessi errori) che piano piano diviene una gabbia. Per uscirne vale il discorso che abbiamo visto quando si è parlato di resilienza le scorse settimane; è una pratica che si conquista con il tempo, se necessario con l’aiuto di professionisti e con un po’ di fatica ma alla fine i risultati ripagano dello sforzo. Già iniziare un percorso di cambiamento è di per sé il cambiamento.
Vale la pena ribadire che comunicare è un’attività alla quale non si sfugge e quindi è giusto imparare a farla bene perché così facciamo bene alla nostra vita, al nostro sviluppo e alle nostre relazioni. Ci consente di abbassare la soglia dello stress e di avere risultati soddisfacenti quando proponiamo le nostre istanze a chi ci ascolta; in poche parole è una fonte di benessere e di salute perché, ad esempio, riduce al minimo l’ansia da prestazione che può essere foriera di disturbi fisiologici piuttosto spiacevoli oltreché di rinunce che limitano la nostra creatività e la nostra crescita.
Chiudo con Paul Watzlawick come ho cominciato: “Comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro.”